Alessitimia, Psicosomatica e Regolazione Affettiva
A cura di Ivano Frattini
La psicoanalisi e le neuroscienze affettive dovrebbero essere ormai considerati schemi di riferimento che ci permettono di impiegare metodi scientifici diversi per indagare aspetti diversi della persona. La differenza fra corpo e mente non è tanto negli eventi osservati ma nei linguaggi in cui vengono descritti. La psicoanalisi per esempio ci permette di indagare la cause inter ed intrapsichiche della malattia o del disturbo, la neurobiologia ci permette una maggiore conoscenza dei meccanismi mente-corpo e dei substrati biologici dei dinamismi psichici. Questo parallelismo, però, non deve impedire di cercare dei punti di convergenza dove può trovarsi “l’isomorfismo mente/corpo o dove le scoperte fatte in una disciplina possono essere utilizzate per favorire le scoperte nell’altra”( G.J. Taylor, 1987). Ma alla fine si può parlare di patologia somatica e/o psichica/sociale? Non è più corretto parlare di malattia o disturbo come mancanza di regolazione psicobiologica, espressione di una distorsione dell’identità? Comunque l’affetto è un’informazione a base somatica che segnala il livello di attivazione degli organi vitali. Regolare l’affetto significa quindi regolare il corpo. Il gruppo di ricercatori di Toronto, con a capo G.Taylor, ha assunto un ruolo di primo piano nel panorama contemporaneo delle scienze psicologiche. L'importanza fondamentale sta nel fatto che i ricercatori canadesi sono riusciti a far emancipare il costrutto “locale” di alessitimia, confinata inizialmente nell'ambito esclusivo della medicina psicosomatica, e farlo diventare il cardine di una spiegazione più ampia dei fenomeni clinici legati alla disorganizzazione affettiva. Taylor e i suoi collaboratori sottolineano che il costrutto di alessitimia sia un'entità transnosografica che investe tante patologie. Taylor sottolinea pertanto che non si possa considerare l'alessitimia alla maniera di un fenomeno “tutto o nulla”, come se si trattasse di una incapacità assoluta di provare ed esprimere le emozioni. Essa va piuttosto intesa come un deficit nella capacità di regolare gli affetti, che, a seconda del suo grado di strutturazione, può coinvolgere interamente la vita di un individuo e la sua modalità di esperire il proprio corpo, il proprio mondo interno, e le relazioni con l'ambiente esterno, oppure intaccare specifiche aree mentali relativi a contenuti specifici dell'esperienza. Il nostro Centro studi e Ricerche sulla terapia dei disturbi della regolazione affettiva, attivo nel territorio romagnolo dal 2012, partendo dalle considerazioni di questo autore si propone, e si è proposto fino ad ora, di fare ricerca sia in campo medico che in campo psicoterapeutico e sociale sulle tematiche strettamente connesse alla Regolazione affettiva. Cercheremo di sviluppare il discorso clinico-teorico che si è prodotto in questi anni dallo studio intensivo della affettività e dalla usa complessa regolazione.
La Regolazione Affettiva
Oggi sentiamo continuamente in ogni ambito la parola “Stress”. La parola stress è spesso la carta jolly giocata in ambito medico per aprire e chiudere il problema del ruolo della psiche nel corpo in una sola parola. Tale semplificazione è apparentemente solo terminologica, al contrario costituisce di fatto una sintesi estrema di un problema che andrebbe invece visto nella sua profondità, con rilevanti conseguenze concettuali come, per esempio, un’insufficiente attribuzione di peso a tutte le altre situazioni patogene nel mondo della psiche non definibili necessariamente stressanti, come potrebbero essere messaggi ambientali ambigui o carenze di esperienze adeguate e formanti. Peraltro il paziente che sente attribuire la propria sofferenza allo stress, quasi mai beneficia di questa definizione, spesso si sente incompreso, svilito, oppure pensa che “i medici, anche questa volta, non hanno capito nulla”, perdendo fiducia nella possibilità di chiedere aiuto. Per quanto ci siano indispensabili le teorie che distinguono la conversione isterica, dalla dissociazione, dalla somatizzazione, dalle fantasie sul corpo così come dalle fantasie nel corpo, il paziente rimane ai nostri occhi una persona intera che differisce dalle altre in termini quantitativi più che qualitativi. Partendo dal principio che la mente è una struttura relazionale e non può nutrirsi da dentro, se prima non sia stata nutrita da fuori attraverso dei buoni legami possiamo dire che l’esistenza psicosomatica dice Winnicott (1987) “è una conquista e, benché si fondi su una tendenza ereditaria alla crescita, non può diventare una realtà senza la partecipazione attiva di un essere umano che contenga e manipoli il bambino. Un fallimento in questo ambito ha a che fare con tutte le difficoltà che insidiano la salute fisica e che in effetti derivano da una debole struttura della personalità.” Possiamo schematicamente definire che sono psicosomatici in senso stretto i sintomi dove vi è un chiaro segno anatomico (ulcera, psoriasi, alopecia, etc.) conseguenza di un’alterazione del fisiologico funzionamento e dello sviluppo psicofisico della persona, senza che ciò sia l’espressione corporea di una rappresentazione rimossa. Gaddini (1981) spiegava che nelle malattie psicosomatiche vi è una eziologia psicologica e una patogenesi biologica. Nel disturbo da conversione, quello che Freud chiamò isteria da conversione caratteristica è l’assenza di un danno d’organo con una sintomatologia che non risponde alle leggi della fisiologia quanto piuttosto a quelle della fantasia del paziente. Il dolore, l’anestesia o la paralisi a un arto non corrisponderanno dunque alla distribuzione dei dermatomeri ma a ciò che il paziente immagina sia per lui “il braccio” o “la gamba” e alle sue fantasie su cosa sia per esempio una paralisi. La relazione psicosomatica si stabilisce fra il corpo e la psiche del neonato e il corpo e la mente della madre che, a sua volta viene condizionata da ciò che la circonda e dalla sua stessa storia. Queste prime relazioni saranno le basi su cui il neonato strutturerà le sue percezioni, il modo di riconoscere il suo corpo, i suoi sentimenti, gli altri e la realtà esterna. Egli in-corpora i legami che vengono stabiliti con lui, e che diverranno la base della relazione che lui avrà con sé stesso. Gli affetti hanno quindi inizialmente un registro puramente corporeo; nelle prime fasi dello sviluppo la realtà coincide pienamente con gli effetti che essa produce nel corpo. Queste risposte corporee le conserveremo per tutta la vita, nonostante la lor trasformazione in processi mentali. Nelle famiglie ove vi sia una difficoltà nell’esternalizzazione o nello scambio d’affetto il corpo è intrappolato in quanto unico terreno su cui avviene lo scambio affettivo. Se non vi è spazio per registrare mentalmente “sono triste” “sono felice” “sono arrabbiato” , vi sarà solo il posto per “sono stanco”, ho “mal di testa”, questi diverranno i modi generici accettati di sperimentare e di condividere gli affetti. La codifica psichica delle emozioni corporee del neonato dipende quasi del tutto dalle capacità di elaborare psichicamente le emozioni da parte di colui che le riceve dal neonato. Per esempio se un bambino piange per angoscia, questa è trasmessa all’adulto attraverso le modalità comunicative del neonato esclusivamente corporee. Ma se le capacità dell’adulto di trasformare le emozioni in sentimenti psichici non gli permettono di poterlo fare, queste emozioni del bambino dovranno per forza di cose essere trasformate in qualcosa di più concreto e corporeo., qualcosa che l’adulto si senta più capace di accogliere e risolvere, come la fame e il dolore. Il corpo diventa così programmato in modo tale che l’unico modo affinché l’altro empatizzi con la propria sofferenza è di cambiargli nome; non è più angoscia, ora è fame. La codifica corporea sostituisce quella affettiva/psichica, invece di accompagnarla. Ho il battito cardiaco perché ho paura, e non ho il battito cardiaco e non so perché, la paura non la sento e quindi sono malato di cuore. (Boschan, 2008). Per riuscire a poter distinguere ciò che ci sta accadendo e poterlo anche riferire a se stessi e agli altri c’è bisogno che la persona abbia delle buone capacità di “regolazione affettiva”.
La questione “Psico-somatica”.
La questione della regolazione affettiva nasce con il costrutto di alessitimia, termine questo nato dagli studi svolti sui disturbi psicosomatici. Prima di iniziare ad interessarci della regolazione affettiva è opportuno raggruppare i principali significati di “psicosomatica ”quali appaiono nel corso del Novecento, con prevalente riferimento alla tradizione psicoanalitica, sia per far luce nella babele linguistica, sia per agevolare l’individuazione dei significati. Faremo riferimento allo schema proposto da Fornaro (2007). Il termine “psicosomatica” è stato attribuito a: “1. Qualunque malessere somatico conseguente in qualche modo a una condizione psichica. Sotto quest’accezione generica vengono raggruppate non solo le oggettive alterazioni somatiche che lascino supporre un importante fattore psicogeno, ma anche i disturbi privi di riscontro medico, come i sintomi di conversione, che già rientravano nel quadro dell’isteria (storicamente, Groddeck, 1917; Deutsch, 1953; ecc.), e in generale i disturbi “somatoformi”. I ricercatori che abbracciano quest’accezione spesso non distinguono i disturbi conseguenti a conversione di conflitti psichici da altri tipi che la escludono (quali quelli su base alessitimica, come in genere si ritiene oggi); pertanto, specie in sede clinica, essi tendono a interpretare in termini simbolico-psicodinamici qualunque disturbo somatico psicogeno (oltre ai menzionati Groddeck e Deutsch, vedi Ammon, 1992). Qui il termine “somatizzazione” acquisisce tale significato, ovvero tutte le patologie somatiche psicogene, in quanto tutte, in definitiva, risponderebbero a meccanismi di conversione (avrebbero cioè significato simbolico). Storicamente quest’accezione individua una corrente importante (tra gli altri, Stekel, 1922;; Garma, 1953 ( cit. in Fornaro, 2005); Deutsch, 1959, in qualche misura Chiozza, 1976; ecc.). in competizione con la linea Freud-Alexander; 2. I soli disturbi funzionali, cioè privi di oggettiva base organica (citato da Trombini & Baldoni [1999,], Biondi & Cancheri [1999] e Neri [2007,]), dunque direttamente imputabili a cause psichiche: in sostanza i disturbi somatoformi. 3a. Al contrario, le oggettive alterazioni fisiopatologiche o anatomo-patologiche di importante matrice psichica. Pertanto in quest’accezione le patologie psicosomatiche si contrappongono ai disturbi somatoformi e in particolare di conversione. Va però rilevato che la discriminazione basata sulla presenza dell’oggettiva alterazione somatica è superficiale: anche i disturbi funzionali, se protratti nel tempo, possono portare a oggettive lesioni (Alexander, 1950) o esserne implicati nell’esordio (Schur, 1955; ecc.).
3b. Le alterazioni somatiche (di rilievo anatomo-patologico o solo funzionale) che segnalano un malessere psichico, ma propriamente non lo traducono, non lo “mimano”, non ne sono la metafora, come invece nei disturbi di conversione. Mentre nell’accezione 3a discriminante è la presenza di un’oggettiva alterazione somatica, ora lo è il carattere non simbolico, bensì solo segnico della patologia somatica (Alexander, 1950; Taylor, 2003; ecc.). Derivano secondo gli uni da meccanismi arcaici di difesa (“forclusione”: McDougall, 1989) o da “difese biologiche” (Trombini & Baldoni, 1999); secondo altri da carente elaborazione mentale delle emozioni (Sifneos & Nemiah, 1970; ecc.); ovvero da entrambi (Marty et al., 1971); o ancora da un’elaborazione dell’emozione secondo un programma psico-biologico dissociato da quello psico-comportamentale (Pancheri, 1980).”
In questo schema possiamo iniziare ad evidenziare, quello che poi affronteremo dettagliatamente, ovvero la differenziazione fra disturbi somatopsichici e psicosomatici.
“4. Un insieme di sindromi somatiche significativamente correlate con strutture tipiche di personalità (Dunbar,1943; ecc.), o con specifiche dinamiche intrapsichiche (Alexander, 1950; ecc.). A differenza delle accezioni 3a e 3b, ora è altresì contemplata una “specificità”, nel senso che un dato disordine psichico coinvolge di preferenza un dato apparato od organo. I quadri così individuati darebbero luogo a una vera e propria nosografia psicosomatica, dove, storicamente, spiccano i famosi great seven (asma bronchiale, artrite reumatoide, colite ulcerosa, ipertensione essenziale, neurodermatite, tirotossicosi, ulcera peptica).
5a. Tutte le malattie somatiche, dato che presentano nella loro genesi o almeno nel loro decorso qualche fattore di vulnerabilità individuale di natura psichico-sociale (Alexander, 1950; Lachman, 1972; ecc.). Mentre nelle accezioni fin qui esposte il fattore psicologico è eziologicamente rilevante, ora esso risulta per lo più solo facilitante. Pertanto, psicosomatiche sarebbero pure le malattie infettive: se la positività all’agente patogeno non coincide con lo sviluppo della malattia, si danno pure altri fattori causativi; d’altra parte il funzionamento del sistema immunitario è influenzato dalla condizione psichica. Il che ricordano opportunamente Levenstein (1999, cit. in Fornaro, 2007) a fronte dell’affrettata espunzione dell’ulcera gastro-duodenale da ogni considerazione di tipo psicologico dopo la scoperta del ruolo eziologico dello helicobacter pilori. A rigore, va però osservato che se tutte le malattie sono, in fondo, psicosomatiche, allora nessuna lo è come classe a sé.
5b. In un’accezione più moderata, «potenzialmente» tutte le malattie somatiche in cui siano dimostrati i «meccanismi di mediazione tra fattore psichico e malattia fisica» (Biondi & Pancheri, 1999, p. 2256).
6. Una visione integrale dell’uomo malato, da considerarsi nella totalità dei fattori intervenienti nell’eziologia e nel decorso della patologia: biologici, psicologici, sociologici (Alexander, 1950; Grinker, 1953; Engel, 1977; Lipowski, 1985; Fava & Sonino, 2002; ecc.). Ne consegue un approccio clinico di tipo integrato, che ogni medico e ogni psicologo dovrebbero avere a cuore.
7. Una visione che insiste sull’unità “biopsicosociale” dell’essere umano e dunque sulla compresenza, in ogni sua manifestazione, di fattori biologici e di fattori psichico-relazionali (Alexander, 1950; Lipowski, 1984; Trombini & Baldoni, 1999; Solano, 2001; ecc.). In questo senso la psicosomatica, al di là della patologia, finisce col diventare una visione antropologica collegabile a filosofie anti-dualiste, tendenzialmente moniste.”
A questa disamina del termine psicosomatica, vogliamo aggiungere, a nostro avviso, una importante differenza, che si cercherà di evidenziare in questo lavoro: la differenza tra i disturbi, che si possono denominare, “somato-psichici” e quelli cosiddetti “psico-somatici”. Conoscere questa differenza, non è solo una questione di maggiore chiarezza teoretica, ma la differenza è incentrata soprattutto sulla clinica. Il trattamento, come cercheremo di mostrare, è molto differente nelle due situazioni. Queste sono, a nostro avviso, due ipotesi diagnostiche sul funzionamento mentale del paziente, in generale, ovvero non in sola presenza di disturbi psicosomatici, ma ci riferiamo a come l’individuo regola i suoi stati emozionali e affettivi. Attraverso lo studio di Taylor vedremo che il termine psicosomatico è sempre più fuorviante e che sarebbe opportuno parlare in qualsiasi condizione patologica e fisica o mentale di disturbo della regolazione affettiva della persona. Quindi in quale modalità somato-psichica o psico-somatica la persona regola i suoi stai emozionali/affettivi? Questa è la domanda diagnostica a cui il nostro centro cerca di rispondere davanti a qualsivoglia disturbo che il paziente porta.
Epigenetica e psicosomatica.
La concezione moderna della psicosomatica afferma Porcelli (2018) mette in evidenza la complessità e la multi-causalità delle malattie in generale, indipendentemente dal riconoscimento di malattie psicosomatiche che viene dato loro. In questa concezione, le variabili alla base delle patologie intervengono come mediatori interconnessi reciprocamente a diversi livelli. L’epigenetica, affermatasi negli ultimissimi decenni, rappresenta un fattore di mediazione importante fra eventi ambientali e vulnerabilità alle malattie. La valutazione dei fattori epigenetici in psicosomatica può consentire di far luce su fenomeni complessi come il rapporto fra eventi stressanti infantili e decorso clinico (dall’esordio alla cronicizzazione al rischio di mortalità) di patologie in età adulta. La complessità psicosomatica Parlare di psicosomatica o di disturbi psicosomatici era relativamente semplice nel secolo scorso, almeno fi no a quando le patologie venivano spiegate in base a teorie di mono-causalità diretta. Nell’epoca d’oro della medicina psicosomatica, attorno alla metà del secolo, il modello teorico di psicosomatica si basava su una mono-teoria esplicativa (la psicoanalisi), su un rapporto causale grosso modo lineare (conflitto intrapsichico o tipo di personalità che causa tipologie definite di patologie organiche) e su una specifica individuazione di prototipi di patologie chiaramente psicosomatiche (le cosiddette Holy Seven). Tracce di questa vetusta concezione della psicosomatica permangono ancora oggi, naturalmente, per svariate ragioni, dal dogmatismo di scuola alla semplificazione dei problemi clinici da parte sia del grande pubblico (anche per via delle informazioni incontrollate che girano in rete) sia a volte anche degli addetti ai lavori. Così come la teoria classica della medicina psicosomatica nel secolo scorso ha una data simbolica di inizio (il 1950, anno di pubblicazione di Psychosomatic Medicine di Franz Alexander), la psicosomatica moderna ha la sua data simbolica di esordio nel 1977, anno in cui George Engel pubblica su Science il suo famoso modello biopsicosociale in un articolo dal titolo significativo di The need for a new medical model: A challenge for biomedicine. Da allora, ricercatori e clinici hanno man mano preso consapevolezza della necessità di cambiare il modello epistemologico di riferimento, aprendo la strada a un modello complesso di spiegazione di sindromi e malattie fisiche. Ne è risultato dice Porcelli (2018) che oggi chi si occupa di psicosomatica, a livello tanto clinico quanto di ricerca, deve necessariamente partire da almeno due assunti di fondo: 1) non esistono malattie psicosomatiche in quanto tali: le condizioni psicosomatiche sono variabili da individuo a individuo e spesso da un periodo di vita all’altro nello stesso individuo e pertanto i fattori psicologici agiscono a livelli diversi nel singolo individuo; 2) in un’ottica biopsicosociale, le malattie sono pluri-determinate e multifattoriali per cui il peso relativo dei fattori biomedici e psicologici variano da individuo a individuo (Porcelli, 2009). In sintesi, il fascino della psicosomatica contemporanea è costituito dall’essere un costante work in progress con molteplici sfide che provengono tanto dalle scoperte di laboratorio quanto dalla complessità dei fenomeni clinici. Fra i contributi più recenti che impongono alla psicosomatica di riconsiderare i meccanismi di formazione dei fenomeni fisici sono da annoverare, per esempio, le scoperte dei rapporti strettissimi fra aspetti psichici e sistema immunitario, del ruolo del microbiota in molteplici patologie mediche e psichiatriche e, appunto, dell’importanza dei fattori epigenetici. Anche per l’epigenetica è possibile indicare almeno un paio di date fondative. La prima è il 1959, anno in cui il biologo Waddington pubblica su Nature il suo lavoro Evolutionary Systems Animal and Human in cui conia il termine “epigenetica”. La seconda è il 2001 quando Nature e Science pubblicano i risultati dell’Human Genome Project. (Porcelli, 2018). Le attese su questo progetto colossale e multimiliardario erano altissime e culminavano nella speranza di aver scoperto il “Sacro Graal” delle malattie in modo da poterle prevenire e curare definitivamente. La disillusione che ne è seguita è stata proporzionale alle attese iniziali di ricercatori e del grande pubblico, amplificate dai mass media. Il maggior punto di frattura è costituito dalla differenza fondamentale fra “genetica” ed “epigenetica”. In estrema sintesi, la modificazione genetica riguarda l’alterazione della struttura o delle dimensioni degli acidi nucleici che contengono le informazioni dettagliate. L’epigenetica invece riguarda la modificazione dell’espressione del gene che non intacca affatto la sequenza del DNA. Si tratta quindi dello studio dei cambiamenti ereditari che avvengono perché si verifica non un cambiamento del materiale genetico in sé, ma nel pattern di espressione di alcuni geni specifici, dovuto a fattori per così dire esterni al DNA, fattori che inducono il silenziamento o la trascrizione di sequenze geniche e che danno pertanto luogo a disattivazione o iper-attivazione di processi biologici. Le principali modificazioni epigenetiche riguardano i processi di metilazione nelle regioni promoter del gene (siti denominati CpG) e di modificazione delle proteine istoniche, ossia di quella struttura proteica che avvolge il lungo fi lamento del DNA come una sorta di rocchetto, che occupa uno spazio ridottissimo di pochi micron di diametro. La cromatina (ossia la forma in cui il fi lo del DNA è avvolto dagli istoni all’interno delle cellule) che si “apre” srotolandosi adeguatamente consente l’accessibilità dei fattori di trascrizione e consente quindi l’espressione (ossia l’attivazione) del gene, mentre se la struttura di cromatina rimane “chiusa”, avvolta ermeticamente come un gomitolo compatto, inibisce la trascrizione, ossia non consente al gene di attivarsi. Cosa determina la modificazione dell’espressione genica se non la struttura stessa del DNA? La risposta che si sta affermando in modo sempre più preminente è: l’interazione dell’organismo con l’ambiente, ossia i fattori epigenetici. E, fra questi, ci sono proprio i fattori che la ricerca in psicosomatica ha individuato come quelli che costituiscono i cosiddetti fattori di rischio per le malattie: alimentazione, attività fi sica, stress, infezioni, depressione, e soprattutto i fattori interpersonali, in maggior misura quelli che avvengono nelle fasi precoci dell’esistenza quando l’organismo biologico e la personalità dell’individuo sono maggiormente fragili e modellati dall’esterno (Bottaccioli, 2014). I cambiamenti ambientali che alterano l’omeostasi dell’organismo possono influenzare anche lo sviluppo e la maturazione delle strutture cerebrali, stabilendo una nuova “planimetria” dello sviluppo futuro, processo noto come “reprogramming”. I tempi, l’intensità e la durata dell’esposizione ambientale a fattori nocivi o a relazioni precoci disfunzionali possono alterare i processi epigenetici e persistere nel tempo, anche attraverso le generazioni successive. Le alterazioni che avvengono nelle prime fasi di vita possono quindi costituire una prima segnatura fondamentale con effetto di priming sulla reattività cerebrale a eventi futuri nel tempo (Porcelli, 2018). La metilazione del DNA è considerato il meccanismo epigenetico più probabile alla base delle interazioni gene ambiente nelle associazioni ripetutamente osservate fra eventi stressanti e problemi di salute fisica e mentale. Per concludere possiamo dire che le esperienze individuali memorizzate, soprattutto le esperienze traumatiche, non costituiscono solo la struttura psicologica dei sentimenti dolorosi di perdita, ma si basano su un preciso circuito neurobiologico e su un sistema di salvaguardia della sopravvivenza radicato nelle strutture profonde del sistema nervoso centrale. L’epigenetica ci fornisce un ulteriore tassello per comprendere come non si tratta solo di riattivare esperienze vissute nel passato anche lontano, ma di una vulnerabilità fissata nel nucleo delle nostre cellule risalente probabilmente a un periodo della nostra vita in cui non avevamo neanche la capacità di memorizzare gli eventi. La qualità delle relazioni interpersonali, in conclusione, è una realtà impalpabile ed estremamente soggettiva ma che, come un virus o un qualsiasi agente ambientale, è sedimentato nel cuore della nostra biologia. (Porcelli, 2018).
Alessitimia e regolazione psicobiologica.
G. Taylor
Sifneos coniò negli anni settanta il termine alessitimia (dal greco A= mancanza, lexis=parola, Thymos=emozione) per nominare un insieme di caratteristiche cognitive e affettive. Aspetto fondamentale era il discostarsi del concetto di alessitimia da un modello di inibizione: la persona non reprime o inibisce o nega le emozioni, bensì non ha parole; in altri termini: non riesce a esprimere. La condizione alessitimica, quindi, riflette un deficit dei sistemi di risposta emotiva sia a livello cognitivo-esperienziale, sia al livello dell’integrazione degli stati mentali connessi all’emozione: questi livelli dipendono entrambi dalla connessione tra le emozioni (intese come espressioni di un arousal fisiologico), le immagini mentali e il linguaggio simbolico. Ci troviamo senz'altro più nell'area del deficit che non in quella del conflitto. Secondo la sua definizione attuale il costrutto dell'Alessitimia si compone delle seguenti caratteristiche: 1-difficoltà nell'identificare i sentimenti e nel distinguerli dalle sensazioni corporee che si accompagnano all'attivazione emotiva 2-difficoltà nel descrivere agli altri i propri sentimenti 3-processi immaginativi limitati, evidenziati dalla povertà delle fantasie e infine 4-stile cognitivo collegato allo stimolo reale, concreto e orientato all'esterno. A prima vista alcuni soggetti classificati come alessitimici sembrano contraddire questa definizione del costrutto, in quanto presentano una disforia cronica o manifestano accessi di pianto collera o rabbia. Un'indagine approfondita mostra tuttavia che essi sanno molto poco sui propri sentimenti e in molti casi sono incapaci di collegarli con ricordi, fantasie, affetti, di livello superiore o situazioni specifiche. Sulla base di alcune altre osservazioni cliniche diverse caratteristiche addizionali sono state associate con il costrutto dell'Alessitimia tra cui una tendenza al conformismo sociale, una tendenza a ricorrere all'azione per esprimere le emozioni o per evitare i conflitti, una scarsa capacità di ricordare i propri sogni, una postura piuttosto rigida ed una certa povertà nell'espressione facciale delle emozioni. Se queste caratteristiche sono spesso associate all’alessitimia, esse non fanno tuttavia parte del nucleo teorico del costrutto. Il conformismo sociale, la tendenza all'azione, e l'incapacità di ricordare i sogni non si sono rivelate caratteristiche fondamentali dell'alessitimia nel corso del processo di validazione del costrutto. L'esperienza clinica suggerisce che per caratterizzare l’alessitimia è più importante la qualità dei sogni che la capacità di ricordarli. Anche se il costrutto dell’alessitimia è definito in termini di caratteristiche cognitive identificabili, queste caratteristiche riflettono dei deficit sia nel dominio cognitivo- esperienziale dei sistemi di risposta emotiva sia a livello della regolazione interpersonale dell'emozione. Essendo incapace di identificare accuratamente i propri sentimenti soggettivi, il soggetto alessitimico ha una scarsa capacità di comunicare verbalmente agli altri il proprio disagio emotivo, e non riesce quindi ad utilizzare le altre persone come fonti di aiuto o di conforto. La scarsità dell'immaginazione limita inoltre la misura in cui i soggetti alessitimici sono in grado di modulare l'ansia e le altre emozioni mediante la fantasia, i sogni, l'interesse e il gioco. Privi della conoscenza delle loro stesse esperienze emotive, essi non riescono ad immedesimarsi in un'altra persona e sono dunque non empatici ed incapaci di modulare gli stati emotivi degli altri. Se alla base dell’alessitimia ci sono delle menomazioni della capacità di elaborare e regolare le emozioni non è sorprendente che essa sia stata concettualizzata come un possibile fattore di rischio per molti disturbi somatici e psichiatrici che hanno a che fare con problemi di regolazione affettiva. Un'incapacità di modulare le emozioni per mezzo dell'elaborazione cognitiva potrebbe anche spiegare la tendenza dei soggetti alessitimici a scaricare la tensione causata da stati emotivi sgradevoli mediante atti impulsivi o comportamenti compulsivi quali abbuffarsi di cibo, l'abuso di sostanze, il comportamento sessuale perverso o l’inedia volontaria caratteristica dell'anoressia nervosa. Oltre ad una disposizione agli stati affettivi negativi indifferenziati, i soggetti alessitimici mostrano una scarsa capacità di provare anche emozioni positive come gioia, felicità e amore. Lo sviluppo degli affetti e delle capacità di regolazione di questi è facilitato nella primissima infanzia dall'esperienza di condivisione degli affetti e del rispecchiamento delle espressioni affettive con il caregiver primario (di solito la madre) e in seguito dalle interazioni giocose nelle quali si verifica l'apprendimento della denominazione e dell'espressione dei sentimenti. Numerosi studi hanno dimostrato che quando il caregiver primario non è emotivamente disponibile, o quando il bambino è ripetutamente soggetto a risposte incoerenti a causa della mancanza di sintonizzazione del genitore allora il bambino ha forti probabilità di manifestare delle anomalie nello sviluppo e nella regolazione degli affetti e di sviluppare uno stile di attaccamento insicuro. I clinici affermano che i soggetti alessitimici tendono a stabilire delle relazioni di marcata dipendenza, ma che queste relazioni hanno un'alta interscambiabilità; in alternativa essi preferiscono restare da soli e evitare del tutto gli altri. Le persone alessitimiche utilizzano spesso il linguaggio come un atto piuttosto che come un mezzo di comunicazione simbolica di idee o affetti. Il loro stile di comunicazione non è simbolico, il linguaggio è utilizzato per creare barriere impenetrabili, che bloccano ermeticamente l'accesso alla vita mentale e impediscono la formazione di legami emotivi significativi con gli altri. Quindi le caratteristiche dell'alessitimia riflettono una forma di deficit sia nella componente cognitiva ed esperienziale di risposta alle emozioni e sia nella regolazione interpersonale delle emozioni. Quindi nelle persone con un alto grado di alessitimia c'è una difficoltà sia ad esperire sia a riflettere e sia a comunicare agli altri le proprie componenti affettive. Questo non significa che non ci sono le emozioni ma si ha una difficoltà nella loro decodifica sia nel provarle che nel comunicarle. Questo genera il più delle volte una mancanza di potere gestionale e di elaborazione degli affetti e si produce o una affettività dirompente (disturbi psichiatrici) o una mancanza marcata di esperire a livello psichico la propria vita affettiva, anche in questo caso dirompente e caotica ma tutta sedimentata nel corpo. Possiamo senza ricorrere a separazioni tra mente e corpo pensare ad un diverso livello di esperire l'affettività. Per semplificare possiamo dire: un organismo, un corpo-mente può reagire ad un problema di relazione con il mondo o con un aspetto “corpo”(non simbolico, no- elaborazione psichica) quando l'aspetto “mente” non è in grado di farlo. Per questo motivo nei disturbi della regolazione affettiva la mente non entra ancora in gioco e l'affetto è concentrato nel corpo. Per questo sarebbe più opportuno chiamarli disturbi somatospichici. Con questa nuova visione si viene opportunamente a perdere l'idea che una persona si possa “far venire” anche se inconsciamente una malattia. Come abbiamo evidenziato risulta abbastanza chiaro che vi è una notevole comunanza tra il costrutto di “alexithymia”, il concetto di "disregolazione affettiva" e la malattia somatica intesa come una dissociazione fra i modelli sensoriali e motori di espressione delle emozioni e le parole, intese come rappresentazioni simboliche degli oggetti di cui facciamo esperienza. In questa prospettiva, lo sviluppo emotivo normale dipende dal successo nell'elaborazione ed integrazione dei processi somatici, sensoriali e motori negli schemi emotivi, per cui è il fallimento di questa integrazione a causare i disturbi emotivi; la capacità di un individuo di tollerare gli affetti intensi dipende dall'organizzazione degli schemi emotivi. In questo processo di integrazione, come già detto, è centrale la funzione di “contenimento” svolta dalle figura di riferimento o in generale dall’ambiente di accudimento. Possiamo dire che il concetto di regolazione affettiva non indica semplicemente il controllo delle emozioni, ma la capacità di tollerare affetti negativi (noia, vuoto, perdita, angoscia, depressione, irritabilità, rabbia) intensi e/o prolungati, bilanciandoli con affetti di tono positivo in modo autonomo, ossia senza ricorrere ad oggetti esterni o acting (agiti) comportamentali (desideri suicidi, automutilazioni, uso di sostanze, somatizzazione, disturbi dell'alimentazione, disorganizzazione comportamentale, ecc.). Implica quindi l'attivazione di vari sistemi reciprocamente interconnessi di elaborazione della risposta affettiva, nelle sue componenti biologiche (neuro-fisiologiche e motorie) e psicologiche (vissuti ed elaborazioni cognitive). È strettamente connesso alla dimensione intersoggettiva, attaccamento, sia perché le relazioni con gli altri forniscono una regolazione interpersonale degli affetti in senso positivo (ad es. induzione di calma e rilassamento) o negativo (perdita, aggressività, tensione), sia perché sono decisive per l’interiorizzazione della capacità di autoregolazione soggettiva. I disturbi della regolazione affettiva quindi si riferiscono a tutte quelle condizioni cliniche in cui l'individuo non è in grado di utilizzare gli affetti come sistemi motivazionali e di informazione in relazione ai propri stati emotivi ed al rapporto con gli altri. La transizione, allora, dalla salute ad una sindrome somatica funzionale (ad es., la sindrome dell’intestino irritabile) o ad una patologia organica può avvenire se il sistema di disregolazione delle emozioni disregola anche altri sistemi biologici del corpo. Sulla base di queste argomentazioni, si può comprendere perché l’alessitimia è oggi più ampiamente concettualizzabile nei termini di disturbo della regolazione affettiva. Infatti, da un punto di vista biologico le emozioni sono semplicemente la manifestazione innata di un’attivazione fisiologica automatica che si produce in risposta a stimoli interni o esterni; tuttavia, affinché queste possano essere utilizzate per la comprensione della propria esperienza psichica e come guida per il comportamento futuro, è necessario innanzitutto che le emozioni possano essere tradotta in fenomeni psicologici, cioè stati affettivi e sentimenti. La distinzione tra emozioni e sentimenti è fondamentale per comprendere e curare i disturbi della regolazione affettiva. Le emozioni, infatti, sono eventi fisici, i sentimenti sono esperienze mentali. Le emozioni vanno in scena nel teatro del corpo, comportando azioni e movimenti, molti dei quali visibili agli altri: si assiste a mutamenti di tipo interno (causati dall’attivazione del sistema nervoso autonomo, neuroendocrino e immunitario), alla modifica delle espressioni facciali, al cambiamento della postura e del tono di voce; i sentimenti, invece, sono rappresentazioni interne agli stati mentali dell’individuo connessi all’emozione, e vanno perciò in scena nel teatro della psiche. Le emozioni precedono sempre i sentimenti: i mutamenti che hanno luogo nel corpo quando stimoli interni o esterni producono l’attivazione fisiologica vengono rappresentati nel cervello, generando una rappresentazione (sentimento) che riflette lo stato del corpo e lo stato mentale che lo accompagna. Quando i sentimenti possono essere collegati ai ricordi passati, all’immaginazione e al ragionamento, essi possono essere utilizzati come guide per il pensiero e per il comportamento, e dunque per regolare a ritroso gli stati di attivazione emotiva. È chiaro, tuttavia, che l’integrazione delle percezioni relative agli stati corporei all’interno di più complesse rappresentazioni mentali dipende direttamente dalla capacità dell’individuo di formare tali rappresentazioni: nel corso dello sviluppo primario, gli stati presimbolici e sensoriali legati alla percezione dell’emozione vengono connessi a rappresentazioni simboliche, inizialmente attraverso immagini (come l’associazione tra l’emozione e una persona o un evento), e successivamente, quando si sviluppa il linguaggio, attraverso parole che consentono alla persona di definire, identificare e descrivere sentimenti specifici. È attraverso i sentimenti che possiamo conoscere cosa sta accadendo alle nostre emozioni; nell’alessitimia, invece, le emozioni sono collegate solo debolmente ad immagini simboliche e a parole, e sono sperimentate, invece, primariamente come sensazioni fisiche e tendenze all’azione. Occorre considerare quindi che mentre la regolazione emotiva è un fenomeno psicobiologico innato, largamente inconsapevole, che si realizza sin dalla nascita del bambino principalmente sulla base delle sue caratteristiche temperamentali e della relazione con la sua figura di attaccamento, la regolazione affettiva è una capacità che viene acquisita e potenziata nelle diverse fasi dello sviluppo, in rapporto ai contesti relazionali e alle esperienze vissute. La relazione madre bambino può essere considerata come un sistema interattivo che organizza e regola il comportamento e la fisiologia del bambino fin dalla nascita. Tale sistema di regolazione, a partire da un livello di organizzazione bio-neuro-fisiologico, con il graduale sviluppo della capacità di simbolizzazione, di pensiero e di uso del linguaggio, acquisterà via via sempre più valenza psicologica. Il concetto di regolazione affettiva viene chiaramente esplicitato nell'Infant Research soprattutto nella forma di una regolazione reciproca: non solo la madre regola gli stati affettivi del bambino, ma i segnali affettivi provenienti dal bambino regolano a loro volta l'affettività e il comportamento della madre. E' evidente qui il parallelo con il concetto di “sintonizzazione affettiva” di cui parla Stern quando descrive l'interazione tra madre e bambino come una danza, in cui i due, come due virtuosi, creano cicli periodici di attività sincronica. Come accennato in precedenza, la regolazione affettiva dipende certamente (almeno in parte) dai processi autoregolatori interni che riguardano l’emozione (autoregolazione), ma è al contempo sensibile agli effetti che le relazioni interpersonali hanno su tali processi (regolazione interattiva). Si potrebbe dunque affermare che la regolazione affettiva riguarda la capacità (ridotta nei soggetti alessitimici) di elaborare, modulare, e rivalutare le emozioni, ovvero di effettuare una traslazione e una trasformazione dell’emozione sul piano psichico. Osservando la questione da una simile prospettiva, l’alessitimia non rappresenterebbe perciò esclusivamente un disturbo emotivo, ovvero una primaria forma di alessitimia che possiamo definire somatopsichica, dove vi è un evidente difficoltà nel fare esperienza delle emozioni, ma l’alessitimia costituirebbe anche il riflesso di una difficoltà nell’effettuare una trasformazione secondaria delle emozioni, nel dare forma e parola a quei segnali provenienti dal corpo che definiamo emozioni. Una secondaria forma di alessitimia che possiamo chiamare psicosomatica dove la difficoltà più o meno marcata e quella di portare ad espressione gli affetti. È proprio qui che alessitimia e disregolazione affettiva tendono a coincidere: in un circolo vizioso, la carenza di consapevolezza rispetto alle emozioni impedisce la trasformazione delle emozioni in sentimenti complessi, rendendo difficoltoso per l’individuo entrare in contatto con i propri bisogni e comprendere quelli degli altri; ciò ostacola di conseguenza la costituzione di modelli più complessi e articolati di se stessi e dei propri stati mentali, che possano essere utilizzati come guida per un comportamento appropriato rispetto ai propri bisogni e alle diverse circostanze sociali e ambientali. L’autoregolazione e la regolazione interattiva degli affetti sono dunque interdipendenti. Questo dato è particolarmente rilevante sul piano clinico: già gli studi in ambito evolutivo e neurobiologico mostrano che sin dall’infanzia i pattern stabili di regolazione interattiva delle emozioni tendono ad essere interiorizzati in forma di strategie di autoregolazione, ed è sempre più accreditata l’ipotesi secondo cui lo stesso processo si verifica all’interno del trattamento psicoterapeutico. Dunque, quando nel trattamento sono presenti schemi relazionali coerenti e stabili che contemplano la convalida interpersonale dei sentimenti del paziente e la contemporanea elaborazione condivisa degli stati affettivi sottostanti, è possibile l’interiorizzazione da parte del paziente di più appropriati sistemi di regolazione degli affetti, che si riverberano sulle sue possibilità di fare un migliore uso delle sue emozioni: se tale processo è in grado di produrre nel paziente un incremento della conoscenza implicita ed esplicita sulle proprie emozioni e sui propri sentimenti, esso promuove lo sviluppo di rappresentazioni di sé più integrate e garantisce una maggiore disponibilità di strategie efficaci di regolazione emotiva e comportamentale. Mentre la difficoltà ad una regolazione affettiva autonoma può portare ad instaurare rapporti compensatori di dipendenza più o meno simbiotica con persone reali esterne per la regolazione affettivo/fisiologica. Questo spiega l'incidenza alta di malattie dopo separazioni e lutti. Si perde il proprio regolatore esterno. Va sottolineato che la presenza di un disturbo della regolazione affettiva non implica necessariamente il riscontro di bassi livelli di emozione espressa. Possono riscontrarsi alti livelli di alessitimia anche in situazioni caratterizzate da alti livelli eccessivi di emozione espressa, o comunque non graduati a seconda della situazione. Quindi possiamo dire che esiste una disregolazione verso l'alto ed una verso il basso. La base dei diversi fenomeni resta però la presenza di un'emozione non sufficientemente elaborata, pensata, “digerita”. Comunque per stabilire con accuratezza l'indice alessitimico in sede diagnostica è doveroso utilizzare strumenti sensibili che riescano a cogliere in modo approfondito le peculiari aree di disregolazione affettiva del paziente. La Toronto Structured Interview for Alexithymia (TSIA) , è un test creato da dal gruppo di ricercatori di Toronto che consente questo tipo di valutazione. Bisogna sottolineare, inoltre, che non basta un semplice intervento psicologico, ma si ha bisogno di un intervento psicologico specialistico, per evitare effetti iatrogeni sui pazienti. Per esempio, le interpretazioni smisurate alla ricerca di cause eziologiche del disturbo, o orientare la terapia solo sull'aspetto del conflitto, possono portare ad esacerbazioni anche gravi delle manifestazioni morbose di tipo psicosomatico in risposta all’aumento dell’angoscia che il paziente non è in grado di tollerare. Interpretare il deficit come conflitto, significa comunicare al paziente che esso si sta difendendo attraverso i suoi disturbi (per esempio disturbi somatici) per non affrontare aree inconsce da cui si difende. Per esempio, le interpretazioni smisurate alla ricerca di cause eziologiche del disturbo, o orientare la terapia solo sull'aspetto del conflitto ( tipo “lei attraverso il suo stomaco esprime la sua paura di lavorare” approccio interpretativo/conflittuale, mentre approccio corretto “lei molto probabilmente non sa esprimere la sua paura di lavorare e questa paura riesce a trovare solo la via del suo stomaco” approccio centrato sul deficit), possono portare ad esacerbazioni anche gravi delle manifestazioni morbose di tipo psicosomatico in risposta all’aumento dell’angoscia che il paziente non è in grado di tollerare. Interpretare il deficit come conflitto, significa comunicare al paziente che esso si sta difendendo attraverso i suoi disturbi (per esempio disturbi somatici “il tuo sintomo esprime il desiderio di ecc ) per non affrontare aree inconsce da cui si difende. L'aspetto fondamentale è il discostarsi del concetto di alessitimia da un modello di inibizione: la persona non reprime o inibisce o nega le emozioni, bensì non ha parole, non riesce ad esprimere. Si tratta di un vero e proprio deficit di consapevolezza affettiva (“non so cosa sto provando e non lo so dire”), diverso dalla reazione difensiva da inibizione emotiva ( “so cosa sto provando ma non riesco a dirlo”). La disregolazione affettiva è, quindi, una vera incapacità dell’individuo di sperimentare e comunicare il proprio mondo affettivo, non un conflitto fra varie istanze della psiche. Nella terapia si dovrà affrontare una vera e propria educazione emotiva, facendo sperimentare le emozioni, farle esperire e riconoscere, imparare a comunicarle ecc. una vera “Alfabetizzazione emotiva/affettiva” sempre accompagnata da un continuo sostegno al sé della persona e da un lavoro di miglioramento e arricchimento delle modalità relazionali. Possiamo affermare che la disregolazione affettiva fa parte del sistema affettivo/emotivo, che se alterato può influire sicuramente su altri sottosistemi biologici, come il sistema nervoso autonomo, il sistema endocrino e quello immunitario, contribuendo allo sviluppo di un disturbo o di una malattia somatica. Per questo l’alessitimia è sempre stata considerata associata allo sviluppo delle cosiddette “Malattie psicosomatiche classiche” (Ulcera peptica, asma bronchiale, ipertensione essenziale, tireotossicosi, colite ulcerosa, artrite reumatoide e neurodermiti). Ma risultati di studi recenti hanno inoltre evidenziato una relazione fra l’alessitimia e una varietà di condizioni diverse, come le coronaropatie, il diabete mellito, il morbo di Crohn e il cancro. Frequentemente l’alessitimia influenza il comportamento dei pazienti, specie attraverso la confusione riguardo ai sentimenti e alle sensazioni corporee, con una conseguente cattiva gestione della malattia, caratterizzata da scarse capacità di controllo e ridotta compliance. L’alessitimia non è solo associata ai disturbi psicosomatici o alle somatizzazioni funzionali, ma è stato scoperto, altresì, che essa è una componente importante, anche in altri tipi di disturbi, quali: i disturbi della condotta alimentare, i disturbi della personalità, i disturbi ansiosi, depressivi e di attacchi di panico, e le dipendenze patologiche. Necessario chiarire ulteriormente che il costrutto di alessitimia si differenzia dai modelli basati su un significato simbolico “di conversione”(i disturbi isterici) del sintomo somatico: non c'è qualcosa nella mente (un disagio mentale) che si esprime nel corpo, ma anzi il sintomo somatico si presenta nella misura in cui manca il collegamento con una rappresentazione mentale dell'affetto. Di conseguenza il termine “psicosomatico” appare sempre meno adeguato, in quanto suggerisce inevitabilmente un percorso della psiche verso il soma. Al limite sarebbe più consono alla luce di quanto detto, sostituirlo con disturbo “somatospichico”. Ugualmente fuorviante (e controproducente) appare dire ad un paziente che si presenta da un medico con un disturbo somatico: “lei ha un problema psicologico”, per i seguenti motivi: 1- Come abbiamo visto non è vero. Il sintomo somatico si presenta proprio perché la relazione ad una situazione di vita non è riuscita a trovare la via della psiche (dei sistemi simbolici). 2- Il paziente può sentirsi etichettato negativamente. 3-Il paziente potrà facilmente intenderlo nei termini di:” allora sono io che me lo sono fatto venire”; “è colpa mia”. Inoltre, anche in rapporto all'atteggiamento del medico, potrà recepire qualcosa del tipo: “è affar tuo”; “non mi riguarda più” “devi risolvertelo da solo”. Sarà quindi necessario trovare altri tipi di formulazione. Per prima cosa si può cercare di dare informazioni sui costrutti di alessitimia e regolazione affettiva. Nel momento in cui c'è una richiesta di approfondimento da parte del paziente o al limite se si pensa di avere davanti un paziente con una chiara situazione di disturbo regolativo dell'affettività si potrebbe, dire questo: “C'è un problema di rapporto con il mondo affettivo e relazionale che trova espressione nel corpo, possibilmente perché non è stato possibile pensarci abbastanza, prenderlo abbastanza in considerazione mentalmente, anche preoccuparsene abbastanza”. Inoltre di solito dai medici i pazienti che di solito vengono classificati come meritevoli di cure specialistiche psicoterapiche, sono coloro che manifestano chiari segnali di disagio psichico. Al contrario, da tutto quello che abbiamo visto, il soggetto alessitimico non manifesta spesso alcun disagio mentale esplicito, non crea problemi al medico, anzi può risultare remissivo e condiscendente. Se i disturbi che lamenta sono di natura funzionale, e la situazione tende a ripresentarsi, potrà suscitare nel medico accorto il sospetto di una “somatizzazione” o di una dimensione ipocondriaca, e di conseguenza essere ritenuto meritevole di invio; se però il soggetto presenta invece malattie chiaramente organiche questo non mette in alcun modo in discussione i fondamenti istituzionali della relazione medico/paziente, anzi li rinforza; il medico si trova a suo agio nel ruolo di chi cura una malattia “vera”. Il risultato è che tra i pazienti del medico non vengono inviate proprio le persone in cui il rischio per la salute è più alto, avendo trovato soltanto il corpo come espressione del proprio disagio, mentre vengono inviate ad uno specialista della salute mentale essenzialmente le persone che comunque hanno già trovato un'espressione mentale/comportamentale (in genere meno pericolosa per la salute e la sopravvivenza) per i loro problemi.
I meccanismi difensivi e l’ Alessitimia.
Si possono delineare due principali prospettive teoriche: la prima concettualizza l'alessitimia come una difesa primaria e la seconda la identifica invece come un tratto stabile della personalità che si associa ad uno stile difensivo immaturo. Il primo contributo rilevante rispetto all'ipotesi che l'alessitimia potesse rappresentare una difesa nei confronti del dolore mentale è stato quello di Joyce Mcdougall. Secondo questa psicoanalista francese la desaffectation (una specie di parola senza affetto) svolgerebbe una funzione difensiva rispetto a traumi precoci, attraverso un meccanismo difensivo definito forclusione, che consentirebbe di espellere dalla psiche tutte quelle percezioni, quei pensieri o fantasie insopportabili. Tale meccanismo manterrebbe una scissione tra psiche e soma e l'affetto non potrebbe essere rappresentato a livello simbolico. L'affetto si presenta secondo la McDougall come congelato nella sua capacità di farsi rappresentare. Secondo un altro autore importante in questo campo H. Krystal l'alessitimia è la conseguenza di un trauma psichico subito dal bambino prima che gli affetti siano stati pienamente desomatizzati, differenziati e rappresentati verbalmente. Tra le conseguenze di questo trauma infantile Krystal include l'arresto dello sviluppo affettivo e di quello dell'immaginazione, un'anedonia che resta stabile per tutta la vita e un timore nei confronti degli affetti stessi; quest'ultimi diventano opprimenti e traumatici a causa della loro natura rudimentale e dell'immaturità della mente del bambino. Numerose ricerche hanno rilevato delle correlazioni positive fra alessitimia e difese primitive. Ma Taylor suggerisce che anche se dalle sue ricerche si evidenzia tale correlazione, questo non significa che l'alessitimia debba essere concettualizzata come una difesa primaria, piuttosto può significare che l'alessitimia può essere considerata un tratto stabile della personalità che interagisce con una organizzazione difensiva primaria. In questi termini il problema risulta essere collegato alla complessità e alla multidimensionalità del costrutto di alessitimia che coinvolge gli aspetti sia cognitivi sia emotivo-affettivi del funzionamento mentale. Possiamo iniziare ad affermare che la forma di alessitimia che viene vista come meccanismo arcaico di difesa può essere definito già adesso, poi lo tratteremo come già detto in maniera dettagliata, disturbo della regolazione affettiva in un funzionamento psicosomatico di un individuo, mentre l’alessitimia dovuta ad un deficit di elaborazione emozionale come un disturbo della sfera affettiva in un funzionamento somatospichico.
Alessitimia e teoria del codice multiplo
Wilma Bucci
La teoria del codice multiplo di Wilma Bucci costituisce un importante riferimento teorico per l'alessitimia. La Bucci ritiene che le fasi primitive dell'elaborazione delle emozioni non vengano abbandonate e superate dai livelli più evoluti di elaborazione formale e cognitiva degli affetti. La Bucci ipotizza l'esistenza di tre modalità di elaborazione delle informazioni: il modo subsimbolico non verbale, il modo simbolico non verbale e il modo simbolico verbale. L'elaborazione subsimbolica riguarda tutti quegli stimoli non verbali (emozioni,, input motori, stimoli sensoriali) che vengono processati in parallelo: ad esempio riconoscere le emozioni nelle espressioni facciali, o una voce familiare in una festa, e per restare nella professione intuire il timing dell'interpretazione da dare al paziente. L'elaborazione simbolica non verbale riguarda invece quelle immagini mentali (un volto, una musica, una espressione) che pur presenti nella coscienza non possono essere tradotte in parole. La modalità simbolica verbale, invece, riguarda quel potente strumento mentale mediante il quale l'individuo comunica il proprio mondo interno agli altri e conoscenza e cultura vengono trasmessi da un individuo ad un altro. I tre sistemi sono connessi fra di loro. Per esempio l'emozione provocata da una donna è collegata all'immagine del suo modo di camminare e questa emozione intensa viene poi trasformata in parole in una poesia o in un testo di una canzone. La Bucci definisce processo o attività referenziale tale complessa connessione bidirezionale dalle emozioni alle parole e viceversa. Gli schemi emotivi costituiscono uno dei maggiori organizzatori delle rappresentazioni interne e determinano il modo di costruire esperienze, relazioni interpersonali, ed esprimere i propri stati emotivi. Ne deriva che ogni stimolo interno ed esterno che elaboriamo attiva schemi mentali di relazioni (in prima istanza quelli originati dai primo scambi con le figure di riferimento primarie) e schemi non verbali simbolici e subsimbolici di sensazioni, pensieri, attese, comportamenti immagazzinati in memoria. In tal senso l'attività referenziale non è una semplice trasformazione lineare dell'emozione da una modalità all'altra ma la connessione di componenti separate di uno schema emotivo che consentono di trasformarne il significato. I simboli vengono definiti dalla Bucci come “entità che si riferiscono ad altre entità”, capaci per questo di rappresentare il mondo degli oggetti in loro assenza. La rappresentazione di entità in loro assenza è il campo del simbolico. Aspetto essenziale di tale capacità di rappresentazione è il permettere di comprendere che un determinato oggetto continua ad esistere anche quando non lo si vede. I simboli possono essere immagini o parole. Invece il sistema definito dalla Bucci come subsimbolico non conosce suddivisioni, e si caratterizza essenzialmente per la sua differenza da quello simbolico. Al livello subsimbolico, infatti le emozioni funzionano innanzitutto come mediatori della risposta rispetto a situazioni contingenti, piuttosto che per evocare situazioni in loro assenza. L'alessitimia corrisponde alla mancanza di connessione referenziale fra l'attivazione subsimbolica e l'elaborazione verbale, per arresto di sviluppo (Deficit) o per disconnessione (Trauma). Le emozioni restano quindi collegate in modo debole alla modalità simbolica, sia non verbale(immagini) sia verbale (Parole), e vissute come sensazioni somatiche, percezioni, acting indifferenziati e disregolati. Per concludere possiamo dire che un buon funzionamento psicofisico dell'organismo è necessario un buon livello di connessione tra i tre sistemi. Quando, però, i tre sistemi sono disconnessi tra di loro, l'attivazione subsimbolica disconnessa può portare a diversi tipi di patologie, disturbando il funzionamento dei sistemi fisiologici (patologia somatica), spingendo ad agiti (tossicodipendenza, disturbi alimentari, perversioni) o alla ricerca di significati spuri per esprimere l'attivazione sub-simbolica percepita (deliri, Fobie). Il concetto di sistema sub-simbolico utilizza per poi trascenderli i diversi concetti di origine psicoanalitica e non, quale il processo primario, la rappresentazione di cosa, gli elementi beta, la memoria implicita e il conosciuto non pensato, il linguaggio e la memoria del corpo, l'emozione. Rispetto a tutti questi concetti il sistema sub- simbolico si presenta però con la piena “dignità” di sistema di pensiero organizzato con proprie modalità di funzionamento. Aspetto non secondario il concetto di sistema sub- simbolico non presenta alcun alone mistico ed esoterico e quindi pienamente comprensibile ed utilizzabile da discipline diverse dalla psicoanalisi, facilitando il dialogo. Il concetto invece di connessione e disconnessione tra sistemi fornisce nel contesto della psicologia evolutiva una cornice generale a quelli che la psicoanalisi ha concettualizzato come meccanismi di difesa, ma nel contempo anche al concetto di compito e di deficit evolutivo, nel momento che la connessione tra i tre sistemi non appare affatto data, bensì un compito evolutivo dell'individuo, peraltro mai completo. Quello che è reale del paziente non è altro che la sua struttura mentale, la sua “verità”, la sua memoria a lungo termine, la sua entità biologica da cui originano i significati e in cui sono immagazzinati i ricordi nei codici cognitivi non verbali descritti dalla Bucci. Quindi per la teoria della Bucci che è decisamente anti-ermeneutica è fondamentale la struttura sottostante, biologica da cui dipende il linguaggio, al contrario della concezione ermeneutica, secondo cui la psicoanalisi è solo linguaggio senza alcuna struttura sottostante o storia passata conoscibile o ricostruibile. Un altro aspetto della Teoria del Codice Multiplo è la sottolineatura di quanto il subsimbolico, il non verbale, possa entrare nel linguaggio; e non soltanto nei termini ben noti di tono, prosodia, volume della voce; ma anche, e questo mi sembra l'aspetto più specifico, nella scelta tra parole apparentemente di significato analogo, o nelle caratteristiche grammaticali/sintattiche del discorso. Tali sono ad esempio la scelta di un termine specifico o generico per indicare un oggetto (delle arance o della frutta); l'uso dell'Io o del Noi; l'uso o meno dell'impersonale (ci si trova a, uno si trova a); la descrizione di un episodio specifico o invece di un comportamento in generale; il livello di concretezza dei termini usati ("mi sono arrabbiato" o invece "ho sentito la rabbia che mi cresceva dentro e il cuore che mi batteva come un martello"); in che misura una situazione viene descritta in termini di attività del soggetto sull'oggetto o viceversa ("mi sono entusiasmato di questo lavoro" oppure "questo lavoro mi ha riempito di entusiasmo"). Infine un ultimo aspetto da sottolineare è che la teoria del codice multiplo offre la possibilità di vedere e teorizzare il sintomo somatico come una prima espressione, subsimbolica, di un contenuto che non ha trovato fino a quel momento nessuna possibilità di espressione, e non come effetto di una difesa contro l'emergenza di quel contenuto. Delinea quindi un nuovo rapporto tra somatizzazione e verbalizzazione, incluse condizioni in cui ci si può attendere un rapporto complementare, non alternativo, tra somatizzazione e verbalizzazione, e porta quindi ad implicazioni diverse anche per il trattamento. In questa visione, i sintomi somatici (e agiti) possono essere visti in alcune circostanze come adattivi e progressivi, piuttosto che sempre regressivi, come è stato spesso assunto. La preoccupazione del paziente per un particolare sintomo somatico può funzionare da tentativo di connessione, una connessione transizionale tra la computazione implicita, subsimbolica, del sistema di elaborazione viscero-sensoriale e i contenuti interpersonali dello schema emozionale, piuttosto che un modo di resistere al formarsi della connessione, o un effetto della mancanza di connessione. Come riconosciuto dallo stesso Taylor (2004), il concetto di alessitimia può essere riletto alla luce della teoria del codice multiplo. In tale ottica la situazione alessitimica può essere descritta come corrispondente ad una dissociazione tra il sistema subsimbolico e i due sistemi simbolici: esito finale di tale dissociazione è appunto il non avere parole (né immagini) per le emozioni. Quali che siano i termini che utilizziamo, appare abbastanza chiaro come una dissociazione tra il livello fisiologico (subsimbolico) dell’emozione e quello cognitivo/esperienziale (simbolico) possa comportare difetti nella regolazione fisiologica. Trasversale per tutta la patologia, somatica e psichica. L’utilizzo della teoria del codice multiplo nella definizione dell’alessitimia appare infine utile poiché evidenzia l’aspetto deficitario dell’alessitimia: se in questa condizione la disconnessione si colloca tra il sistema subsimbolico e i sistemi simbolici l’emozione non è arrivata ad essere rappresentata nella mente del soggetto e quindi non può essere oggetto di fenomeni difensivi. Appare quindi ipotizzabile che la situazione alessitimica si sia sviluppata a partire da una alterata funzione di regolazione all’interno della relazione primaria, in cui l’attivazione subsimbolica non ha potuto accedere, attraverso la relazione con l’altro, al simbolo e al suo utilizzo. L’integrazione delle percezioni relative agli stati “corporei” e “mentali” dipende dalla capacità di dar forma a rappresentazioni mentali e a simboli. Le modificazioni sensoriali, viscerali e motorie che si verificano quando si attiva un’emozione sono elaborati dal sistema nervoso nella modalità subsimbolica. Nel corso dello sviluppo primario queste rappresentazioni subsimboliche vengono connesse a rappresentazioni simboliche, inizialmente attraverso immagini (come l’associazione tra l’emozione e una persona o un evento) e, più tardi, quando si sviluppa il linguaggio, attraverso parole che consentono alla persona di definire, identificare e descrivere gli specifici sentimenti (Bucci, 1997). È attraverso i nostri sentimenti che sappiamo cosa sta accadendo a livello delle nostre emozioni. Approcci terapeutici per la cura dei disturbi Alessitimici.
Sebbene gli studi sul ruolo della regolazione affettiva autonoma e interattiva nel processo psicoterapeutico è ancora agli inizi la ricerca osservazionale esistente sul rapporto madre bambino può offrire un modello utile per ipotizzare quali siano alcuni dei processi di cambiamento terapeutico, che avvengono a livello non verbale e che sono all'opera in terapia, e può aiutarci ad affinare la nostra comprensione teorica dei meccanismi coinvolti nel processo di contenimento terapeutico. Modulare la relazione può essere espresso attraverso un'ampia gamma di interventi, sia impliciti che espliciti da parte del terapeuta. Questo si può attuare in modulazioni del ritmo e della profondità del respiro; piccoli movimenti e adattamenti posturali, spostamenti della sedia, spostamenti dello sguardo, del volto e dell'attenzione.; vocalizzi, borbottii, silenzi, parole frasi, interpretazioni. Porcelli (2008) evidenzia i seguenti punti: L'uso scarso, o anche del tutto assente, delle interpretazioni in senso classico va inteso nel quadro sia della teoria (carenza del livello simbolico, scarsa espressione emotiva, basso livello di introspezione, modello del deficit opposto a quello del conflitto) sia del rapporto terapeutico. La questione essenziale non è la possibilità di questi pazienti di giungere ad un insight ma la possibilità di fare nuove esperienze emotive e quindi di tollerare gradualmente una parte importante di sé, la parte affettiva, che invece tende ad essere negata, non riconosciuta, evitata, scaricata in modo grezzo ed indifferenziato, agita all'interno o più spesso all'esterno della relazione terapeutica (compreso il proprio corpo). Una funzione importante della terapia riguarda l'aspetto dell’alfabetizzazione emotiva. Il paziente ha bisogno di 1) riconoscere che sta provando delle emozioni; 2) differenziare che tipo di emozione sta provando, a cominciare dal fatto apparentemente banale che l'emozione sia piacevole o spiacevole; 3) nominare le emozioni al fine di poterle esprimere verbalmente non solo manifestarle nel comportamento. Si tratta di un lavoro generale di unificazione degli affetti che comincia dal livello spesso più accessibile per il paziente: l'informazione sui meccanismi neurofisiologici e psichici che consentono ad un essere umano di provare delle emozioni e di riconoscerle. Il terapeuta potrebbe trovarsi di fronte alla possibilità di spiegare che il pz sta vivendo delle emozioni ma che le avverte come stati fisici e non le sente a livello psichico e rappresentativo e che gli stati emotivi tendono ad autoalimentarsi in intensità e durata e quindi possono essere regolati dall'individuo. E' un processo lento e noioso perché le osservazioni vanno ripetute molte volte senza mai darle per acquisite definitivamente e che, può minare l'autostima professionale e la tolleranza affettiva del terapeuta, innescando anche dinamiche controstransferali negative di cui il terapeuta può non accorgersene. Nel corso della terapia, è importante dirigere continuamente l'attenzione del pz. sulle espressioni comportamentali delle emozioni, unico livello in cui spesso è in grado di esprimere gli stati affettivi. Importante è l'attenzione prestata dal terapeuta alla relazione su “Qui ed ora”, per esempio far notare al pz. che sta muovendo nervosamente le mani o le gambe e chiedere cosa sta provando in quel momento, allo scopo di facilitare la comunicazione fra due livelli molto lontani fra di loro: da un lato l'espressione fisica dell'emozione ansiosa e dall'altro l'assenza di rappresentazioni mentali del contenuto ansioso. E' evidente che la comunicazione non verbale tra pz. e terapeuta è estremamente importante: da qui l'inutilità in queste terapie dell'uso del lettino. Il terapeuta deve fornire un continuo rinforzo ad usare le manifestazioni affettive come segnali. Il passo successivo rispetto al punto precedente è costituito dall'invitare il pz. A stabilire dei legami fra ciò che sta provando e ciò a cui sta pensando o alle preoccupazioni che stanno dietro i pensieri su cui si sta concentrando, e quindi a ciò che accade nella sua vita normale che il più delle volte gli appare distante da quanto avviene nella terapia. Molti autori sottolineano l'importanza della vita onirica, per esempio chiedendo esplicitamente al pz. di parlare dei propri sogni. L'aspetto essenziale qui non è l'interpretazione del contenuto latente dei sogni ma comunicare al pz che ciò che accade nei suoi sogni può essere importante per capire una dimensione affettiva che è carente nella sua vita cosciente, legando contenuti manifesti, eventi quotidiani, reazioni emotive attuali ed episodi del passato. Rinforzare l'uso di “potenziali sublimatori” ossia tutte quelle esperienze che consentono di non agire direttamente le emozioni ma di inserirle in una cornice di attività maggiormente controllata e di tonalità emotiva positiva. Spesso si tratta di rinforzare semplicemente le attività del tempo libero, la creatività, il gioco, ossia tutti quegli aspetti di soggettività che possono diventare sempre più schemi mentali di elaborazione individuale delle emozioni. Incoraggiare attivamente le attività che procurano piacere significa spesso spingere il pz. a provare la dimensione positiva del corpo. Non solo quindi le sensazioni negative (dolore sintomi) o rilassamento (annullare la tensione fisica) ma di sentire le emozioni positive collegate al fatto di “usare” il corpo a scopo di piacere. Il terapeuta quindi agisce su due versanti. Sul versante affettivo, la sua è la tipica funzione di contenitore emotivo: il pz. di solito spaventato del semplice fatto di provare le emozioni, per cui il terapeuta che lo invita a parlare di emozioni deve anche comunicargli nello stesso tempo di essere in grado di metabolizzarle al proprio interno e di poterle gestire insieme senza esserne spaventati. Invece sul versante diciamo cognitivo, il terapeuta funge da Io ausiliario esterno, ossia presta le proprie funzioni dell'Io al pz. non solo sul piano di un migliore adattamento ma sul controllo e la gestione degli stati affettivi. Qui il paziente può regolarmente frustrare i tentativi del terapeuta dovuti all'incapacità del paziente di simbolizzare. Questo può essere confuso come una resistenza inconscia piuttosto che un vero deficit e può generare i problemi controtransferali che abbiamo detto sopra. Le modificazioni della tecnica riguardano più la forma che il contenuto della comunicazione fra paziente e terapeuta e sono finalizzate ad ampliare la consapevolezza del paziente dei deficit nel modo di vivere ed elaborare le emozioni. Fare esperienze emotive e poter pensare agli affetti significa, in senso psicoanalitico, ridurre la scissione interna fra parti di sé razionali e adattive in cui il paziente si identifica e parti di sé considerate come non-me che vengono disadattativamente negate.
Quindi l’obbiettivo cardine dovrà essere quello di acquisire una capacità di pensare il e sul proprio corpo. Si tratta di aiutare il paziente a percepire le proprie esperienze emozionali in modo immaginativo, per far sì che l’agire non sia più un sostituto della rappresentazione, ma un movimento inconscio intersoggettivo verso la raffigurabilità. La terapia dovrebbe riuscire a bilanciare gli aspetti biologici con il linguaggio, ovvero con i sistemi simbolici del mondo relazionale. La distanza fra il corpo e il linguaggio è data dai meccanismi di traduzione fra i codici del corpo ed i codici simbolico-verbali. Vi è una generale tendenza all'interno delle principali correnti della psicosomatica ormai per più di un secolo circa, a muoversi secondo un canone interpretativo di tipo top-down cioè una riprogrammazione basata sul controllo della mente sul corpo. Questo vale pressoché per tutti i modelli interpretativi: tanto gli orientamenti psicodinamici, tanto quelli cognitivo-comportamentali e dell'attaccamento, basati sull'idea di resettare modelli operativi interni M.O.I.) ossia quegli schemi interni attivatori di azioni verso l'esterno, costruiti fondamentalmente su schemi cognitivi-emotivi disfunzionali. Le psicoterapie ad orientamento corporeo, a volte, hanno un'attenzione opposta, di tipo bottom-up, ma non sempre prestano attenzione, oltre l'effetto catartico prodotto da tecniche di abreazione sul corpo, a riscrivere l'esperienza in una dimensione di senso per il paziente; senso che implica anche un orizzonte progettuale cui orientare le trasformazioni prodotte dalla cura. Le operazioni catartiche non sono spesso in grado di fondare una nuova dimensione di senso utile alla vita del paziente. Per questa ragione sembra necessario per lo psicologo e lo psicoterapeuta avere un punto di riferimento in una teoria critica delle emozioni in quanto zona d'intersezione condivisa fra corpo e linguaggio. Bisogna riconoscere che le forme ipermoderne del disagio sociale e della patologia manifestano, ormai un carattere multifattoriale e sono connesse, ad un progressivo svuotamento degli aspetti comunicativi e simbolici del linguaggio. Questo mette il corpo in una posizione particolarmente centrale nelle forme di comportamento, nonché di disagio psichico. Dai disturbi ansiosi depressivi a quelli dissociativi e post traumatici, alle forme compulsive, l'intervento psicologico è sempre più tenuto a confrontarsi con le resistenze del corpo. Ciò indica in maniera abbastanza inequivocabile un'esigenza sempre più condivisa di un allargamento della sensibilità psicologica a confrontarsi con la complessità somatopsichica e psicosomatica. A maggior ragione se si decide di lavorare con il paziente con patologia somatica, proprio per la dissociazione in cui questi già si vive in relazione alla malattia. Infatti, questo tipo di paziente non corrisponde, usualmente, per comportamento, capacità elaborativa, aspettative rispetto alla cura e per le caratteristiche che comportano la complessità e multifattorialità della condizione patologica, ai quadri di comportamento comuni ad una persona qualunque che si rivolge ad una consulenza esclusivamente psicologica. Bisogna capire che più ci si allontana dalla parola più ci si avvicina al corpo (Scognamiglio 2016).